Legittimità del divieto di asportazione di monete antiche di proprietà di privati

Il Consiglio di Stato si è trovato a dover giudicare in merito alla legittimità di un provvedimento di rigetto di una istanza di rilascio di attestato di libera circolazione per alcune monete antiche, presentata dai privati proprietari, nonché del provvedimento di imposizione da parte della Soprintendenza del vincolo di eccezionale interesse archeologico.

La fattispecie concreta sottoposta all’esame del Consiglio di Stato ha avuto origine nel 1923, quando, nel fondo di proprietà di un privato ad Ognina (CA), veniva ritrovato un deposito di 305 monete d’argento della Magna Grecia.

A seguito del ritrovamento nasceva un contenzioso che vedeva coinvolti sia i privati interessati, ovvero il proprietario del fondo ed il ritrovatore, che lo Stato.

Contenzioso e che veniva concluso con tre distinte sentenze del Giudice ordinario passate in giudicato, le quali hanno attribuito il complesso delle monete per la quota indivisa di metà allo Stato, mentre per le residue quote di un quarto ciascuna rispettivamente alle eredi del proprietario del fondo, nel frattempo deceduto, e ai ritrovatori.

Tali quote venivano successivamente divise da un’apposita commissione estimatrice dei singoli pezzi, la quale concludeva i propri lavori nel giugno del ‘48.

Nel 1954 il Ministero dichiarava il complesso monetario in questione di particolare interesse archeologico ai sensi della legge n. 1089/1939 allora vigente.

Dichiarazione che veniva poi revocata dopo due anni e mezzo.

Con atto del Notaio Mirone di Catania del 27 marzo 1957 veniva stipulata una convenzione tra lo Stato, nella persona del Soprintendente competente per territorio, gli eredi del proprietario del fondo e l’avente causa del ritrovatore, al fine di siglare l’accordo raggiunto dalle parti in merito alla ripartizione delle monete.

In virtù della citata convenzione, allo Stato è stata attribuita la proprietà di sette monete ritenute di maggior pregio, restando le altre di proprietà degli eredi del proprietario del fondo e dell’avente causa del ritrovatore, ai quali sono state attribuite per sorteggio due quote di pari valore.

Con l’art. 3 della Convenzione lo Stato rinunciava espressamente in via definitiva a porre qualsiasi vincolo o limitazione alla libera disponibilità e commerciabilità delle monete rimaste comuni tra le altre due parti contraenti.

Lo Stato, inoltre, si riservava la mera opzione di acquisto di ulteriori 29 monete di particolare interesse, opzione poi effettivamente esercitata.

Recentemente, gli eredi del proprietario del fondo hanno presentato un’istanza per ottenere l’attestato di libera circolazione delle suddette monete divenute di loro proprietà, istanza rigettata dall’Ufficio esportazione oggetti d’arte di Roma.

Da qui, il giudizio che ha portato alla pronuncia in esame, poiché gli eredi del proprietario del fondo hanno impugnato sia il provvedimento di rigetto dell’istanza avanzata, che i successivi provvedimenti della Soprintendenza dei beni archeologici della Lombardia, i quali hanno imposto sulle monete di loro proprietà il vincolo di eccezionale interesse archeologico.

In primo grado il TAR Lazio, accoglieva il ricorso ed annullava i provvedimenti impugnati, ritenendo fondato e assorbente il motivo in base al quale le monete si sarebbero dovute ritenere nella libera disponibilità dei ricorrenti, perché lo Stato, con l’accordo a suo tempo concluso, ritenuto di natura transattiva, avrebbe rinunciato in via definitiva a porre su di esse qualsiasi limite o vincolo.

Contro tale pronuncia proponeva appello il Ministero, a detta del quale la citata convenzione avrebbe un significato più limitato rispetto a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado (avendo lo Stato semplicemente concesso la liberà commerciabilità delle monete non si sarebbe in alcun modo impegnato a considerarle liberamente esportabili).

Nell’affrontare la particolare questione sottoposta al loro esame, i Giudici hanno individuato la soluzione della vicenda partendo dall’interpretazione della citata Convenzione transattiva conclusa nel lontano 1957 e cercando di stabilire l’esatta portata della “rinunzia” in essa compiuta dallo Stato.

Dopo un’approfondita ricostruzione del quadro normativo vigente in materia di beni culturali, dando atto di una successione di leggi nel tempo che presentano una continuità di principi ispiratori, il Consiglio di Stato ritiene che “la rinuncia contenuta nella convenzione va interpretata in via testuale, come eccezione ad una regola che è nel senso della tutela massima, ovvero nel senso di escludere la sola misura alla quale si riferisce espressamente, la prelazione in caso di alienazione, e di tener ferme tutte le misure residue apprestate dalla legge, che sono come si è visto del medesimo contenuto sia che si abbia riguardo all’epoca del rinvenimento, sia che si considerino l’epoca della convenzione ovvero l’epoca attuale. Rimane allora ferma la necessità, per il caso di esportazione del bene, che non è contemplato dalla rinuncia, di chiedere ed ottenere la relativa autorizzazione”.

Peraltro, una conferma di simile interpretazione è ricavata dal Consiglio di Stato anche dai principi del diritto civile comune.

Infatti, si legge nella decisione “La corresponsione del premio da parte dello Stato, proprietario per legge delle monete rinvenute, va infatti considerata un atto il cui contenuto non è determinato puntualmente dalla legge, che si limita a prevedere un limite massimo al suo ammontare, pari alla metà del valore del bene, e a consentire di corrisponderlo in denaro o in natura. A fronte di ciò, l’incertezza nell’interpretare l’atto che in concreto liquida il premio non si può che risolvere, ai sensi dell’art. 1371 c.c., nel senso meno gravoso per l’obbligato di cui si è detto, ovvero ritenendo che lo Stato abbia abdicato nella misura minima compatibile alla posizione di tutela che gli spettava”.

Sulla base delle riportate considerazioni, quindi, la decisione in esame ha annullato i provvedimenti impugnati “nella sola parte in cui impongono il vincolo della prelazione”, ritendendoli invece legittimi “nella parte in cui impongono ogni diversa forma di tutela prevista dalla legge”, con conseguente conservazione del diniego di autorizzazione all’esportazione.

Concludendo, emerge con tutta evidenza Ragionevole, la correttezza sul piano normativo della soluzione raggiunta, la quale, ritenendo le monete in questione originariamente sottoposte al massimo livello di tutela, ha interpretato la rinuncia dello Stato in senso testuale, limitandola esclusivamente al solo vincolo di prelazione espressamente previsto in sede di convenzione, con conseguente legittimità della successiva decisione dello Stato di non consentire l’uscita definitiva di tali beni dal territorio italiano.