La firma “per ricevuta” sulla busta paga non fa prova dell’avvenuto pagamento
Le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula “per ricevuta”, costituiscono prova solo della loro consegna, ma non anche dell’effettivo pagamento, la cui dimostrazione è preciso onere del datore di lavoro.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione Sezione Lavoro nell’ordinanza n. 21699 depositata lo scorso 6 settembre 2018.
Nello specifico, un lavoratore aveva agito giudizialmente vantando alcune differenze retributive ed il trattamento di fine rapporto; respinta la domanda in primo grado, il lavoratore otteneva però l’accoglimento da parte della Corte d’Appello.
La decisione veniva così impugnata in Cassazione dalla parte datoriale, la quale sosteneva che il cedolino sottoscritto dal dipendente fornisse una prova liberatoria per l’azienda, ossia doveva ritenersi provato che la retribuzione fosse stata versata contestualmente alla consegna (e alla firma) delle buste paga.
Di diverso avviso la Suprema Corte che, uniformandosi a pronunce precedenti (tra cui Cass. N. 13150/2016), ha ritenuto infondate le censure della società.
I Giudici hanno infatti osservato come andasse applicato il principio secondo cui l’obbligo, a carico dell’azienda, di consegnare ai lavoratori un prospetto contenente tutti gli elementi della retribuzione, non attiene alla prova del pagamento, prova per la quale non bastano le indicazioni contenute nel cedolino, qualora il lavoratore ne contesti la corrispondenza con quanto effettivamente versato.
Invero, afferma la Corte, non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza tra la retribuzione percepita dal lavoratore e quella risultante dai prospetti di paga e, pertanto, è sempre possibile accertare che la sottoscrizione eventualmente apposta dal dipendente non abbia carattere e natura di quietanza.
Per tali motivi, la Corte ha confermato il diritto del lavoratore ad ottenere le differenze retributive richieste.